MALLEGATO E BURISTO


Nel mio girovagare da gastronauta nella splendida provincia senese ho scoperto, per caso, attraverso Franco Bruci, emerito macellaio di Volterra, un particolare che mi ha permesso di rivoltare un falso, legato alla gastronomia Toscana. La maggior parte della storiografia alimentare toscana, infatti, dissertando di salumi tipici, ha sempre recitato più o meno così: “Nella ciclicità della macellazione del maiale della civiltà contadina, il mallegato o buristo rappresenta uno dei primi prodotti da consumare…”.
Tutto vero se non per il fatto che Mallegato e Buristo non sono la stessa cosa.
Franco Bruci (è lui che svela l’arcano!) li prepara entrambi solo nel periodo che va da ottobre a febbraio, e solo una volta alla settimana, il giorno in cui macella personalmente i pochi maiali che acquista direttamente dai contadini della zona, perché il sangue deve essere utilizzato freschissimo.
Per ottenere il Mallegato si utilizzano lardelli tagliati a quadretti e mollica di pane toscano raffermo ammollato, che vengono coperti d’acqua e lasciati cuocere sul fuoco per circa un’ora e mezza. All’impasto si aggiunge il sangue di maiale, coagulato e passato al setaccio, l’uvetta (qualcuno anche i pinoli e il cedro tagliato a piccoli dadini) sale, pepe e spezie varie, e lo si mette nel budello di maiale. Lasciato cuocere in abbondante acqua bollente fintanto che giunge in superficie, il Mallegato viene tolto dall’acqua e poi appeso in cantina ad asciugare per una giornata. Si serve cotto sulla brace o allo spiedo, oppure tagliato a fette, infarinato e passato in padella con olio o burro.
Il Buristo, invece, si ottiene con la testa e le cotenne del maiale, prima cotte e poi macinate, alle quali si aggiunge il sangue suino filtrato (in quantità inferiore che per il Mallegato) e i lardelli soffritti. Conciato con sale e pepe, il Buristo viene prima insaccato e poi cotto, proprio come il Mallegato. A Volterra, seguendo una tradizione gastronomica a cui è sicuramente estraneo il concetto di dieta ipocalorica, lo si consuma tradizionalmente fritto, con uova e pancetta stesa.

 

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TARTUFO DI VOLTERRA


Da queste parti vengono classificati in due categorie. Ci sono i disprezzati “cicciai”, quelli che lo fanno solo per soldi, si muovono di notte e lasciano l’automobile in un luogo facendosi portare altrove da un amico per non farsi scoprire. Poi ci sono gli “sportivi”, quelli che lo fanno per passione, e non partono mai da casa senza un trancio di rigatino e l’immancabile fiasco di vino. Sono i tartufai volterrani che, da ottobre a febbraio, accompagnati dal loro cane rigorosamente meticcio (l’essere frutto di incroci rende il loro olfatto più sviluppato), si aggirano per boschi e campagna alla ricerca del prezioso tartufo bianco di Volterra, il Tuber magnatum Pico. Tuber perché il tartufo è un fungo ipogeo (cioè sotterraneo) a forma di tubero, magnatum perché talmente prezioso da essere destinato ai ricchi, cioè ai magnati, e Pico dal nome del medico che nel Settecento lo descrisse e ne parlò.
Di estimatori più o meno illustri il tartufo ne vanta sin dai tempi del patriarca Giacobbe. Tra essi Plutarco, Cicerone, l’imperatore Carlo V, Napoleone, senza dimenticare Camillo Benso, conte di Cavour, che era solito regalarlo ai suoi interlocutori diplomatici per facilitare il futuro rapporto di collaborazione.
Il tartufo che tutti agognano di trovare è quello che nasce vicino a quella che da queste parti tutti chiamano “sanguinello”: pianta dalle bacche piccole e nere, il cui tartufo è facilmente riconoscibile per le leggere striature rosse della polpa e per l’intenso e gradevole profumo. La sua forma dipende dalla consistenza del terreno: regolare se cresce in un suolo soffice, piatto e irregolare se il suolo è molto compatto. Prezioso e fugace come ogni essenza rara, lo si può conservare solo alcuni giorni in luogo fresco, avvolto in stoffa o in carta leggermente assorbente, oppure anche tra il riso in un barattolo di vetro.
Lo si consuma sempre crudo, dopo averlo pulito spazzolandolo amorevolmente sotto l’acqua corrente, affettato in sottili lamelle col tagliatartufi su piatti di preferenza caldi, sulle pappardelle e nello squisito tortino al tartufo.

 
   
 
   
   
   
   
   
   
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