La tradizionale bottiglia di Coca Cola le cui forme sinuose come è noto riprendono la silhouette del corpo femminile, ha attraversato il XX secolo mantenendo intatta la sua popolarità: è diventata una sorta di icona per eccellenza del mondo dei consumi, celebrata o considerata simbolo da abbattere a seconda dei punti di vista, da Andy Warhol in poi presente a pieno titolo anche nell’iconografia dell’arte contemporanea.

Foto di Dan Wrightson& Ela Bialkowska


Damiàn Ortega espone nell’Enopolio di Poggibonsi 120 variazioni sul tema prodotte su suo progetto dagli artigiani del cristallo locali. L’artista messicano, interessato in tutto il suo lavoro al mutare dei significati e delle funzioni degli oggetti di uso quotidiano determinati da alterazioni della forma, ci introduce in un universo di forme bizzarre, dove i requisiti standard della produzione industriale contemporanea – la forma riconoscibile che nel tempo è diventata segno di sicurezza e affidabilità per il consumatore – entrano in crisi. In altre parole le bottiglie diventano corpi umani e il confronto si concentra sulle relazioni tra il corpo massificato e gli interventi di manipolazione artigianale che include i trattamenti più disparati, dalle pratiche di scarificazione alla tortura.
A partire dalla scelta del numero che chiama in causa il mondo letterario di De Sade (Le 120 Giornate di Sodoma ma anche la trasposizione cinematografica di Pasolini) Ortega presenta un mondo di imprevisti, dove le bottiglie/corpo sono assemblate per gruppi, a seconda delle trasformazioni dell’una o dall’altra parte del corpo: la bocca, il collo, la pelle, gli organi, il corpo come campo di battaglia…