L’installazione
di Miroslaw Balka nel cortile dell’ex carcere di San Domenico
a San Gimignano, nasce – come tutti i lavori dell’artista
polacco – da una relazione densa con le connotazioni del
luogo che la ospita. Se questo spazio potesse parlare, ci racconterebbe
infatti i desideri compressi di tutti i detenuti che nel corso
di secoli vi hanno trascorso le ore d’aria, tutte uguali,
per anni, storie di ogni genere.
Dodici sedie di seconda mano sono disposte attorno al pozzo preesistente
e si muovono con un movimento circolare. Su ogni base è
disposto un vaso in alabastro contente una pianta di ortica. L’artista
da un lato ci ricorda le presenze degli abitanti che, costretti
in questo luogo, vi hanno trascorso un tempo dove niente o quasi
può accadere, dove giorni, mesi, e anni sono scanditi dalla
ripetizione indifferente, dove i fantasmi del passato e del futuro
diventano inevitabilmente i compagni di strada più fedeli,
dall’altro mette in scena un discorso più ampio che
trascende la relazione con il luogo e le connotazioni storiche
connesse per trasformarsi in un discorso più ampio sullo
scorrere del tempo e sulla dimensione esistenziale in esso implicita.
Balka invita il pubblico a prendere metaforicamente posto sulle
sedie: ognuno è al momento la presenza mancante, pronta
ad essere accolta sulla sedia vuota.
Lavorando poeticamente sull’assenza, l’artista mette
l’accento sulla percezione del tempo soggettiva. Ecco dunque
che essere liberi o reclusi, non riguarda unicamente la condizione
esplicita vissuta dai carcerati, ma assume una connotazione con
la quale ogni essere umano si trova quotidianamente a fare i conti
e che per esempio emerge in tutta la sua evidenza ogni volta che,
di fronte ad una scelta, entriamo in un confronto, spesso doloroso,
con le mura che noi stessi costruiamo dall’interno.
|