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Anish Kapoor
Un'arte che fa mondo Cominciamo
con due dichiarazioni di Anish Kapoor prese dall'intervista rilasciata
a Douglas Maxwell per Art Monthly nel maggio del 1990, e tratte dal catalogo
della mostra dell'artista a cura di Germano Celant per la Fondazione Prada
di Milano nel 1995. Esse appaiono molto utili per tentare una prima definizione
di un'artista da tutti considerato come uno dei più interessanti
scultori degli ultimi 15 anni: "Quando ero in India dipingevo. Pittura
astratta o cose del genere, nello stile del primo Pollock, da cui resto
tuttora affascinato. Rothko e quel periodo. " e "Sono un pittore
che è uno scultore." Questo paradosso pone già alcuni
interrogativi relativi non solo al lavoro e al pensiero di Kapoor, ma
alla definizione di arte in generale, perché rilancia le domande
che la gente si pone quando si chiede: "Ma che cos'è, allora,
quest'arte contemporanea, dove i pittori dicono di essere scultori, gli
scultori di fare i pittori, gli artisti di non essere più artisti
e l'arte di essere antiarte?" Una risposta
a livello generale potrebbe essere quella dell'eterno dilemma tra l'apparire
e l'essere. Per ciò, diciamo subito che con tali dichiarazioni
Kapoor si inserisce a pieno titolo in quella genealogia di artisti che
come Duchamp sviluppano interrogativi alchemici e agiscono anche attraverso
concetti paradossali, o che, come Fontana, realizzano opere che ci spingono
oltre l'apparire alla ricerca dell'essere e che finisce per trovare un
altro precedente in Judd quando diceva che: "Il nuovo lavoro assomiglia
ovviamente piu` alla scultura che alla pittura ma e` piu` vicino alla
pittura." Difatti, in quanto dichiarato da Kapoor si nasconde la
natura di chi usa la tridimensionalità, che è elemento della
scultura e dell'architettura, quindi della realtà concreta, per
saggiare i meccanismi della superficie e della visione illusoria che sono
tipici connotati della pittura.
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Già
nelle prime opere, infatti, ricopriva le forme tridimensionali: semisfere,
coni, piramidi, parallelepipedi, e varianti con polveri bianche, rosse,
gialle, blu. La scelta di colori fondamentali non può che parlarci
della pittura allo stesso modo del materiale in polvere che, facendo vibrare
la superfice, mette in discussione la tridimensionalità e la compattezza
delle forme. Forme e colori puri che stanno per dissolversi, per diventare
antimateria, aria, spirito per passare tramite un fenomeno naturale dallo
stato dell'apparire a quello dell'essere, un valore espresso attraverso
il pigmento anche da Yves Kline a cui Kapoor fa riferimento. Ecco raggiunta
un'altra meta nell'interpretazione della sua opera, forma in dissolvimento
e quindi in tensione, dove la calma apparente fa riflettere sullo stato
latente della potenza della materia stessa, dell'energia in essa contenuta
e per questo metafora dell'intero universo. In tal modo
l'artista ci parla di problematiche universali ed eterne che sono quelle
della creazione del mondo sia come materia che come spirito. Non dimentichiamo,
infatti, che se la scienza si occupa di ciò sul piano della materia
e la religione su quella dello spirito all'arte è demandato il
compito di dimostrare la compatibilità tra questi due mondi separati,
cioè di conciliare l'inconciliabile, di unire gli opposti, a tale
proposito ricordo che la prima opera di Kapoor è il disegno in
gesso di una figura androgina sul pavimento del suo studio.
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Infatti,
più che di opposizione si tratta di dualità, quindi non
di differenze che si scontrano, ma di coppie che si unificano e che generano:
come il pieno e il vuoto, il tutto e il nulla, l'apparire e l'essere che
uniti originano, danno vita. Così facendo Kapoor risolve il dubbio
amletico dell'essere o non essere e ciò è evidente in quasi
tutte le sue opere da circa la metà degli anni Ottanta, dove pietre,
muri e luoghi dei suoi lavori sono caratterizzati da aperture, convessità
colorate con pigmenti blu o neri. Spazi e colori densi e profondi che
ci attirano verso l'interno, al centro del mondo, in direzione dell'ignoto,
pigmenti che non ci interessa collocare nella scala cromatica, perché
i colori della paura e del mistero non sono l'apparenza del nero o del
blu, ma l'essere il buio e l'essere al buio. Ma il buio ha come contrappeso
la luce come il non colore nero ha il suo opposto nel bianco somma di
tutti i colori. Ed è verso questa totalità luminosa che
si è incammiata la ricerca di Kapoor negli ultimi anni con opere-parallelepipedi
bianchi che sembrano ancora una volta voler dissolvere la forma in luce.
Questa luce
è il senso dell'opera posta davanti alla chiesa di San Bartolo
a Volterra. Qui vi è un grande blocco di marmo bianco, dove solo
il lato che guarda la facciata della chiesa è lavorato, mentre
gli altri vengono lasciati ruvidi, mostrando la materia in trasformazione,
in potenza energetica. La facciata dell'opera, invece, appare liscia e
piena da lontano, ma man mano che ci avvicciniamo ad essa ci accorgiamo
che è levigata, scavata fino a formare una convessità che
ci attira al suo interno. Così è come se la pietra respirasse
creando un passaggio interno, un vuoto, che non è più buco
nero e che non ha più bisogno di essere una cavità colorata,
perché ora è una superficie luminosa che ci cattura al suo
interno, ci imprigiona anima e corpo, dandoci anche la sensazione reale
di cosa volesse dire Michelangelo quando diceva che "La scultura
si fa togliendo e la pittura aggiungendo." Difatti, il punto cruciale
dell'opera di Kapoor sta proprio nel punto in cui la visione passa dall'immagine
piena del blocco a quella del vuoto, in quel momento in cui la superficie
bianca e piana, quindi pittorica, diventa scultura e viceversa. Ecco,
allora, come il pittore Kapoor che si esprime con la scultura e, commentando
Michelangelo, ci mostra l'essenza illusoria dell'apparire e la luce profonda
dell'essere e in questa relazione possiamo dire che l'arte torna all'arte
e che per questo è tutta eternamente contemporanea. Tornare all'arte
con le immagini dell'essere, il nostro essere ignoto e inconoscibile a
cui l'umanità cerca di dare un senso in tutte le sue manifestazioni
religiose, filosofiche, scientifiche con le eterne domande: Chi siamo?
Da dove veniamo? Dove andiamo? e che l'artista, fondendo conoscenza ed
esperienza, ci mostra come pneuma della materia, respiro del mondo. Allora,
potremmo dire che le "pietre" di Kapoor sono anche una sorta
di tentativo alchemico, una nuova via per ricercare la pietra filosofale
che non serve per fabbricare l'oro, ma qualcosa di molto più prezioso
come la forma e lo spirito dell'essere, dell'arte e della vita. Ciò
è visibile anche nelle quattro sculture in alabastro realizzate
a Volterra e collocate nella Pinacoteca cittadina, dove l'opera è
contemporaneamente piena, vuota, pesante, leggera, luminosa e dorata.
Qui, grazie alle proprietà translucide del materiale l'artista
riesce a rafforzare il senso del passaggio dalla pittura alla scultura
e dalla pittura alla sua dissoluzione aerea fino a diventare luce compiendo
l'intero ciclo, perché se la forma è della scultura la luce
è della pittura. Ecco la luce della materia, luce dorata come quella
della pietra filosofale che coglie lo stato di passaggio come unificazione
di apparire e essere come è il tramonto che si avvia a chiudere
il giorno, o l'alba che apre ad un nuovo giorno.E qui sta la risposta
a chi si chiede del senso della pittura, della scultura, dell'artista
e dell'arte, perché si capisce che la dualità dell'opera
di Kapoor è in realtà una circolarità creatrice come
la naturalità delle stagioni, il movimento dei pianeti e del cosmo
che agisce tra individuale e collettivo e che perciò finisce per
essere, come la natura, un'arte che fa mondo.
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