Illuminated sanctuary of empty sins

Incastonato nel tipico paesaggio toscano si eleva in tutta la sua necessaria incongruenza un inceneritore tecnologicamente sofisticato. È questo il luogo scelto da Nari Ward (nato ed educato in Giamaica, ed oggi a New York) per la sua opera, una grande scultura praticabile che ha come base un terrapieno che sorge accanto all’inceneritore e che è in effetti una precedente
discarica coperta: copre ciò che è residuo dei nostri consumi, dei nostri bisogni e dei nostri desideri bene o male soddisfatti, e che ora non vogliamo vedere, che abbiamo voluto rimuovere dall’orizzonte del nostro sguardo, pur essendo consapevoli della sua imbarazzante esistenza. È già questo parte essenziale delle tematiche affrontate da Nari Ward: che cosa la cultura attuale sceglie di conservare e che cosa sceglie di eliminare dalla propria memoria storica, che cosa viene deciso di sacrificare senza alcuna patente di sacralità e attraverso un processo di riduzione del valore e della dignità di ciò che comunque è stato, qual è e in che consiste la tossicità dei residui delle nostre produzioni e dei nostri consumi. L’opera consiste in un camper con le pareti di alabastro bianco traslucido con il muso deflagrato e sepolto in un ammasso di residui ferrosi prodotti dall’inceneritore. Al suo interno si dispiega il santuario. Alle pareti sacchetti di teflon, il materiale assolutamente impermeabile usato per contenere i residui tossici dell’inceneritore, come gli ex-voto in una cappella votiva. In mezzo sedili fatti di copertoni d’auto. Sul fondo l’altare semicircolare in ferro battuto – un omaggio anche questo, insieme all’alabastro, all’artigianato locale -, su cui sono accese innumerevoli candele rosse. Santuario dunque, debitamente orientato in direzione est-ovest, come luogo di sosta e di contemplativa autoriflessione, scena di un rituale senza officianti, ma anche simbolico e dislocato ventre sacrale della macchina distruttrice dei rifiuti, tempio etico dedicato alla mortalità ai suoi processi.


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