Marienbad

(il riferimento al film L’année dernière à Marienbad di Alain Resnais non è casuale) è una della grandi installazioni/performance che caratterizzano da circa un decennio l’opera di Marina Abramovic (nata a Belgrado, ma da anni residente ad Amsterdam). Progettata espressamente per il padiglione abbandonato Charcot dell’ex-Ospedale Neuropsichiatrico di Volterra, vive dell’atmosfera del luogo, un luogo denso di memorie inespresse, basti solo pensare al fatto che quando l’Ospedale era attivo era arrivato a contare fino a 5000 presenze. Abramovic richiede e sollecita la partecipazione del pubblico a cui l’artista offre un’esperienza, di cui lei si pone allo stesso tempo come celebrante e oggetto sacrificale, diva e clown, tramite e soggetto di passione, oggetto del desiderio e soggetta al desiderio che ne suggerisce mosse e atteggiamento, forme e figure. In presenza e in assenza. Qui il rituale prevede un percorso attraverso l’edificio verso il punto dell’evento: percorso ed evento si equivalgono e solo la diretta esperienza individuale dona all’opera la sua forma. La partecipazione non elimina la differenza dei ruoli, ma i termini di passività e attività, componenti essenziali dell’estetica dell’Occidente, subiscono quell’alterazione necessaria alla realizzazione della struttura del desiderio e delle passioni. Come in altre sue opere, si produce uno scarto di doppia natura che condiziona la qualità dell’esperienza: in questo caso si tratta di un cambio di gravità, che provoca un rallentamento del passo, e un ripescaggio da un passato che ha il sapore non tanto della nostalgia quanto dell’attualizzazione di un paesaggio e di un clima che appartengono a un’Italia da tempo scomparsa, così come dimenticate e fagocitate dal tempo sono le passioni di quelli che questi luoghi hanno abitato nella reclusione che la malattia e il suo trattamento ai malati imponeva. Quel che conta è la durata, il permanere dell’immagine oltre il suo stesso consumarsi dentro il tempo, la bontà e la bellezza dell’esistere oltre la sofferenza del loro inesorabile trascorrere.



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